La missione principale dell’Europa, dopo la pubblicazione del corposo report di Mario Draghi, è recuperare competitività rispetto a Stati Uniti, Cina ed altri colossi emergenti dell’economia mondiale. In questo momento, l’obiettivo di politica economica comunitaria, di per sé condivisibile, sta diventando ossessivo al punto che sul tema della sostenibilità, dove l’Europa aveva dimostrato fin qui di avere una marcia in più rispetto ad altri Paesi, sta facendo un passo indietro.
Ad esempio, il recente pacchetto Omnibus ha introdotto forti semplificazioni sugli obblighi di rendicontazione non finanziaria delle imprese. Si tratta di una manovra assai pericolosa, perché da un lato muove dal presupposto sbagliato che competitività e sostenibilità siano due termini alternativi; dall’altro lato, sembra mettere in crisi l’impianto del Next Generation UE al cui interno proprio una fetta consistente di finanziamenti e sostegni è andata all’Italia con il Pnrr.
In verità, non essendoci mai stato un serio dibattito sul tema della competitività e confondendo spesso gli indicatori di risultato con quelli di processo, l’Europa pare che stia pericolosamente arrancando.
Tra l’altro, come abbiamo avuto modo di appurare leggendo alcuni documenti di lavoro sulla competitività a noi sottoposti da qualche parlamentare europeo, sembra che un’ulteriore preoccupazione della Commissione sia coniugare la liberalizzazione con un certo protezionismo e barriere all’entrata, con l’obiettivo di favorire la formazione di “champions” continentali, cioè grandi imprese europee capaci di competere ad armi pari con i colossi stranieri.
Il tema della competitività, a cascata, dall’Europa tocca i vari Paesi membri e le aree regionali. L’Italia, ad esempio, non è certamente un Paese che brilla per competitività, anche se nel Global Attractiveness Index 2024 di The European HouseAmbrosetti è posizionata diciassettesima nel mondo.
E poi c’è la Sicilia. Secondo l’EU Regional Competitiveness Index (il report è aggiornato al 2022), è ultima per competitività in Italia, al 219° posto su 234 aree regionali esaminate dalla Commissione europea. Scomponendo l’indicatore di competitività nelle voci costitutive pesano alcuni fattori ostativi, come condizioni infrastrutturali, innovazione, andamento del mercato di lavoro e dimensioni dei mercati di sbocco. Quest’ultimo fattore, equivalente al tasso di crescita e di “scalabilità” delle imprese, è il più penalizzante per la Sicilia, perché inferiore rispetto al resto del Paese.
Con l’ausilio della banca dati Aida dell’Università di Catania, abbiamo esaminato un campione di imprese siciliane e l’andamento tra il 2020 e il 2023 di due indicatori: i ricavi di vendita e il numero di occupati. Il campione, a sua volta, è stato scomposto in tre gruppi: le grandi (fatturato superiore a 50 milioni di euro e dipendenti in misura superiore a 250), le medie (fra i 10 e i 50 milioni di euro e dipendenti fino a 250) e le piccole imprese (tra 1 e 10 milioni di euro e dipendenti fino a 50).
Sorprendente il dato che è venuto fuori. Le 2.847 piccole imprese esaminate sono cresciute ad un tasso annuo composto del 22,15% in termini di fatturato e del 10,10% per numero di dipendenti. Gli stessi valori per le 260 medie imprese analizzate sono stati rispettivamente di 10,86% e7,72%. Nelle 44 grandi imprese esaminate, le percentuali di crescita sono state del 7,86% per i ricavi di vendita e del 4,56% per il numero di occupati. Nel confronto con altre aree del Paese la Sicilia però manifesta tutta la sua debolezza competitiva nei tassi di crescita delle imprese. Ad esempio, a differenza delle grandi imprese siciliane, nel periodo 202023 le equivalenti lombarde (pari a 1.078) sono cresciute del 12,53% (fatturato) e del 21,11% (numero di dipendenti).
Tornando alla Sicilia, quindi, bisogna creare le premesse perché il grado di competitività (risultato) si mantenga più elevato grazie a migliori condizioni di competitività (processo). Il momento è propizio, per via dell’abbondanza di risorse del Pnrr. Ma se queste verranno assegnate laddove servono meno, sono risorse buttate via e che, soprattutto nei finanziamenti, bisognerà ripagare a tempo debito all’Unione Europea.
Se nell’ultimo triennio le piccole imprese siciliane sono cresciute di più, rispetto alle altre classi dimensionali, meritano di essere sostenute. Solo così si rafforzano sui mercati, creano occupazione e migliorano la competitività.